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Sostenibilità da Tricase a Sydney
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Sostenibilità da Tricase a Sydney
di Virginia De Giuseppe (foto in evidenza di Costantino De Giuseppe) –
Parlare di sostenibilità non è facile né simpatico per vari motivi. Intanto è un argomento così vasto, che chiunque vi si addentri, si trova davanti…il mondo. Si parte dalla bottiglietta d’acqua di Tricase e in un lampo si finisce a Sydney a vedere le plastiche nell’oceano; si parla di un semplice panino al prosciutto, e ci si ritrova negli orrori degli allevamenti intensivi; si vuole fare un bel giro in automobile con la musica sulla litoranea, mettendo benzina on the road, e ci si trova seduti negli uffici americani della Exxon Mobile, una delle più grandi compagnie petrolifere che sapeva del disastro ambientale sin dagli anni 70 ma ha messo in atto una campagna di manipolazione e disinformazione gigantesca, pur di poter continuare a fare affari.
Per me in particolare che sono nata nei ridenti e abbastanza lussuosi anni 80 italiani, non è stato nè facile nè bello iniziare a comprendere certi meccanismi: si è equivalso alla caduta del velo di Maya, al collasso della Matrix sociale. Quanto mi piacerebbe essere una complottista, una di quelle persone che cerca a tutti i costi di stanare i governi e i poteri forti che chissà quale trama stanno tramando alle spalle dei poveri ignari cittadini. Se lo fossi, sarei nella mia mente fantasiosa, anzi paradossalmente al riparo dalla realtà. E invece complottista non sono, anzi la caduta della “Matrix” (teniamoci questo termine un po’ cinematografico ma che rende) è stato quanto di più reale, assurdo, scientifico e impattante che la mia mente di ex bambina degli anni 80 potesse affrontare:
quindi quella canzoncina allegra dello spot che canticchiavo, “Non han mai fatto male due fette di salame”, conteneva al suo interno il massacro di miliardi di maiali, esseri intelligentissimi ed emotivi costretti a vite infime, che muoiono terrorizzati tra pianti e urla? E come se non bastasse, eccome se il salame fa pure male alla salute! E che dire dei fast fashion, tutti quei brand che producono abbigliamento tipo Zara o H&M, che ho sempre frequentato e che ho scoperto sfruttare la manodopera dei bambini in Bangladesh, che sognavano di diventare medici o insegnanti e si ritrovano piegati in due tutto il giorno in ambienti umidi e malsani a cucire? Questo c’era dietro la mia bella maglietta adolescenziale colorata e alla moda, che indossavo spensierata e profumata per andare a passeggio con le amiche sul motorino? E che dire dei rifiuti, che tuttora non mi spiego come sia possibile che negli anni 80 e 90 nessuno si poneva neanche il dubbio sullo smaltimento?
Ricordo un cassonetto nella mia casa di Tricase, in via Dei Pellai, in cui abitavo da piccola: era grande, posizionato al centro della piazza, e dentro vi si buttava di tutto a qualunque ora del giorno e della notte, dalla buccia di banana alla scarpa, dal televisore all’umido o alla plastica, tutto insieme. Come è possibile che sembrasse a chiunque, me inclusa, naturale quel modo di gettare i rifiuti? Come mai solo negli ultimi anni, pian piano, come società ci stiamo svegliando veramente sull’impatto e le conseguenze di mille cose della vita quotidiana?
Io da sociologa sono abituata a cercare risposte. La sociologia viene in maniera spontanea collocata tra le materie umanistiche, e lo è, ma garantisco che in alcuni tratti si poggia invece sulla scienza, soprattutto per come la interpreto io, e in quanto piccola scienza vuole cercare risposte chiare e certe.
Ebbene, ai tempi dell’università tali risposte certe, su altri fenomeni, le avevo, invece con il passare degli anni si sono infittite le domande, altroché!
Davvero non mi spiego come sia stato possibile un tale insabbiamento ad esempio della Exxon, ho dovuto studiare e approfondire recentemente presso Unisalento il libro “I bugiardi del clima” per capirci meglio qualcosa. È un libro consigliato dai docenti universitari di Sociologia Ambientale: è talmente dettagliato, logico e ricco di documenti, che è impossibile non capire cosa sia accaduto.
Ma a parte questo, in generale, è davvero poco simpatico parlare di sostenibilità: non è una parola astratta, appunto da libro universitario. Coinvolge tutti e tutto, ogni minuto, in ogni azione, e fa parte della Matrix il notare che molte persone magari non ci fanno veramente caso, anche in buona fede, come non ci facevo caso prima io. Svegliarsi a certi temi può essere impattante davvero: si parla di impatto appunto ambientale, ma bisogna parlare anche di impatto personale, non a caso esistono fenomeni quali ecoansia, soprattutto tra i più giovani.
Nel mio caso non sono, oltre che una complottista, neanche un’ ecoansiosa . Continuo ad adorare le cose belle della vita, perché ho capito che fa parte della transizione ecologica il vivere molte contraddizioni, doverle accettare quasi come un dato di fatto: ad esempio, un uomo plastic free, che lotta per un mondo senza plastica, cosa fa se poi il figlio si ammala? Non acquista in farmacia il flacone del medicinale perché è di plastica? Oppure una persona che è attenta agli imballaggi quando fa la spesa, prediligendo il cartone, come si comporta con tanti prodotti che non esistono ancora in cartone o materiali alternativi? E così via per migliaia o forse milioni di cose.
Comunque per concludere un discorso veramente ampio per non dire infinito, si diceva all’inizio che parlare di sostenibilità non è né facile nè simpatico. Avrei preferito di gran lunga occuparmi d’altro, ad esempio di letteratura ottocentesca, che adoro: stare per fatti miei a leggere un libro di Jane Austen, ridendo della sua arguta e sottile ironia antica.
Ma a quanto pare non siamo nell’800, siamo nel 2025, e chi apre gli occhi sul mondo, è praticamente costretto a parlarne e cercare soluzioni.
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