Bellissimo articolo,,speriamo possano leggerlo in tanti ... è un' ottima guida per i carenti di empatia verde ...
I migliori alberi della nostra vita
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I migliori alberi della nostra vita
di Serena Laporta – –
Siamo imprigionati nella cella del nostro luogo, la galera del nostro tempo, il Sud. Terre arse, steppe rinsecchite, oramai popolate da scheletri di ulivi, le grate delle nostre prigioni.
Assistiamo impotenti e sbigottiti all’abbattimento di alberi per far posto a marciapiedi deserti, piste ciclabili inutilizzate, parcheggi, strade, asfalto senza limiti. Pieghiamo al nostro volere gli alberi, li piantiamo, li sradichiamo, li tronchiamo di netto, perché nel creato noi siamo quelli che crescono di più, consumano di più, distruggono di più, vogliono di più. Fra tutte le specie viventi noi apparteniamo all’unica che da quando nasce ha bisogno di insegnanti, per imparare a mangiare, per camminare, per parlare, ne abbiamo bisogno finché moriamo, e nel nostro cammino evolutivo abbiamo perduto alcune primarie forme istintive di sopravvivenza che abbiamo ampiamente compensato con l’esercizio sempre più pervasivo dell’abuso di ogni risorsa, vegetale, animale e la nostra stessa umana.
Gli alberi ci accompagnano da quando nasciamo, li scaliamo da bambini per guardare nell’orto del vicino, con poche assi e una vecchia coperta vi costruiamo fra i tronchi una capanna, appendiamo altalene e cuccagne. Nonne e prozie ci hanno tramandato le storie antiche con frasi indimenticabili “Arbiru te ulia àprite e gnutti Maria! “ e la nostra fantasia galoppava, immaginando una donna con un neonato nascosta nel grande tronco squarciato di un ulivo millenario, aspettando di scampare alla strage incombente.
Albero rifugio, albero casa, albero mondo, come in Avatar.
E gli alberi oltre al loro ruolo istituzionale di fabbrica di frutti, legno, ombra, semi, fiori, odori, bacche, panorami, bellezza e generoso ostello per innumerevoli specie animali, ci hanno sempre elargito anche il grande dono di essere ispiratori di storie, mandanti inconsapevoli di miriadi di racconti fantastici e metafore universali che mettono radici dentro di noi, e testimoniano la Storia.
Pare che Jack London, vero uomo di mare, “il sale mi ha impregnato fino al midollo osseo” dirà di se stesso, viaggiatore avventuroso per tutta la vita, soprannominato per questo “Principe delle Ostriche”, abbia avuto l’idea de Il richiamo della foresta mentre se ne stava ad oziare sul tronco di una quercia, Jack’s Oak l’hanno poi chiamata, forse in suo onore. Tra le fronde del maestoso albero, luogo insolito per lui, ma sempre coi piedi lontano da terra, ha immaginato la storia di Buck, il cane rapito e venduto e rivenduto più volte, che dopo mille dolorose avventure fra gli umani avidi d’oro viene trascinato dal proprio istinto a ritornare nella foresta, tra gli alberi e tra i lupi, il suo mondo, la verità primordiale della sua natura.
J.W. Goethe amava particolarmente Weimar e i dintorni ricchi di foreste, si recava spesso in un bosco dove era solito fermarsi all’ombra di un faggio a scrivere e pensare e alla sua morte nel 1832 la città dedicò quest’albero proprio al grande scrittore. Nel 1937, più di cento anni dopo, i nazisti decisero di realizzare il campo di concentramento di Buchenwald nei pressi di Weimar e per farlo rasero al suolo 150 ettari di foresta, migliaia e migliaia di alberi, ma graziarono il Faggio di Goethe, che divenne così prigioniero e testimone della tragedia più grande. Helga Schneider, scrittrice tedesca naturalizzata italiana, figlia abbandonata da una madre SS, nel 2009 pubblica il suo delicato e toccante romanzo L’albero di Goethe, aprendo con rara sensibilità uno squarcio sulle storie di amicizia tra i ragazzini prigionieri di quel campo, sulle abominevoli violenze e abusi cui soggiacquero pur di avere in cambio un altro giorno di vita o solo una manciata in più di cibo. Storie di amicizia, di abbandono, di solitudini, di assenza di umanità. Orrore e poesia sotto al grande albero.
E il castagno della cara Anna Frank. Più volte nel suo Diario l’albero consola la prigioniera, l’albero segna il tempo, accoglie gli uccelli e la loro musica soave, tocca il cielo, raccoglie la pioggia nelle sue foglie, suona la musica del vento. Il 13 maggio 1944 Anna scrive un ’ultima volta “Il nostro castagno è in piena fioritura dai rami più bassi fino alla cima, è carico di foglie e molto più bello dell’anno scorso”, si arrampicava in soffitta, nel nascondiglio di Amsterdam, nell’Alloggio Segreto, per trovare la sua pace osservando il cielo, la natura, il canto degli uccelli, lei, in gabbia scrive “Finché questo c’è ancora, non ho il diritto di essere triste”. Il grande castagno è sopravvissuto ad Anna fino al 2010, quando è crollato, ma negli anni dai suoi rami ne sono stati ricavati dei nuovi, piantati ad Amsterdam e donati ad altre città, in tanti posti nel mondo c’è un Albero di Anna.
Cosimo Piovasco di Rondò invece prende una insolita decisione, quella di non rimanere giù ai piedi dell’albero, il grande leccio del suo giardino, vi si arrampica un giorno in cui ha un litigio con i genitori a causa di un piatto di lumache e non ne scenderà più. Il capriccio di un adolescente diviene la costruzione di una vita intera. Cosimo cresce sull’albero, coltiva regolarmente i suoi rapporti familiari, come ogni figlio, come ogni fratello, si innamora, sarà amato e poi abbandonato, ha degli amici, organizza rivolte, studia, si occupa della guerra, incontra Napoleone, ha una corrispondenza con Voltaire, è in uomo del suo tempo, il tempo della Rivoluzione Francese. Fa tutto da lì, in alto tra i rami dell’albero, la sua dimora, il castello del Barone Rampante di Italo Calvino, da cui svanirà all’improvviso per morire trascinato via da una mongolfiera, dopo una vita fuori dagli schemi e dalle convenzioni sociali vissuta tra il verde delle fronde del suo albero..
Poi c’è l’albero del mio prozio Vincenzo, Nzinu, l’unico comunista della mia famiglia. Aveva sposato quella piissima e cattolicissima sorella di mia nonna, e venivano identificati lu Nzinu te la Nzina e viceversa, avendo lo stesso nome, unica cosa in comune, per il resto il matrimonio si rivelò un inferno per entrambi, privo di passioni e tenerezze, non ebbero figli, attribuendosene reciprocamente la colpa a vita, ma per ovviare decisero, con l’aiuto della chiesa, di adottare una bambina, Agatina, così furono infelici in tre. Zio Nzinu era un agronomo e innestatore di grande maestria e veniva consultato e chiamato ovunque ci fossero colture da migliorare e non ebbe mai a soffrire la povertà anche in tempi di guerra, e con la zia curavano un meraviglioso giardino in cui io poi trascorsi parte delle mie vacanze da bambina, tra i viali di terra battuta dove crescevano bellissimi alberi e piante e fiori e frutti in ogni stagione. Potevo giocare con tutto, raccogliere tutto, fare strage di fave e piselli, appendermi ai rami di ogni albero, scuotere susini, spalmare ovunque le resine gocciolanti dai tronchi, farmi le unghie rosse con i petali di geranio, escluso un albero piantato proprio a ridosso della casa, sull’uscio per andare in giardino, a cui non potevo avvicinarmi “E’ velenoso, non ti avvicinare, non toccarlo”. Era un ricino, bellissimo e misterioso, dalle grandi foglie venate di viola e con delle meravigliose infiorescenze rosse simili a ricci di castagne, il guscio dei suoi preziosi semi. Sbuffando chiedevo spesso perché avessero piantato proprio lì quell’albero, così bello e velenoso, a portata di tutti, ma inutile per tutti. Con il tempo, molto tempo, le risposte, sono giunte. Lo zio Nzinu alla fine degli anni ’30 a causa delle sue illegali, per quel tempo, attività sindacali in soccorso dei contadini del nord Salento che venivano stritolati dalle condizioni dettate dall’industria del vino in mano ai grandi imbottigliatori piemontesi, era stato invitato a bere il cocktail di Stato, l’olio di ricino. L’esperienza era stata devastante, ma non lo aveva completamente piegato, poi non riuscì a sfuggire alla demenziale campagna di Grecia, rimanendo bloccato in Albania in condizioni di estrema privazione, ed era ancora lì prigioniero quando gli alleati erano finalmente arrivati e si accampavano un po’ ovunque e si respirava aria da “andrà tutto bene”, salvo che quella sua unica figlia, diciassettenne, ebbe l’ardire di innamorarsi di un soldato polacco. Faceva la maestra di catechismo, e al ritorno si incontrava furtivamente nei pressi della scuola elementare con il suo innamorato. Un pomeriggio mentre era al tenero appuntamento segreto fu vittima di un agguato improvviso da parte della falange opposta della famiglia, zio Ngiccu, consultore del podestà, e sua moglie Tetta, andati a lavare l’onta. La ragazza venne colpita a schiaffi, strattonata e buttata a terra dove venne ripetutamente colpita da calci e pugni e sputi, poi tirata per capelli trascinata a casa svenuta. Rimase semincosciente e con la febbre altissima per una settimana, quindi morì. Di meningite si disse per sempre. Molti anni dopo lo zio Nzinu, ormai novantenne, quando trascorreva le pigre giornate dei vecchi, a rosicchiare peperoncini infernali e a bere un vino blu, con il ricino sempre in primo piano in tutto il suo splendore, confessò finalmente la verità rimasta appesa nella bacheca della sua memoria. Tornato dalla prigionia, orfano dell’unica figlia, vedovo di una moglie in vita, corroso nell’animo come la frattura insanabile della famiglia, sollecitato dalla moglie che voleva un albero in memoria della figlia perduta, aveva deciso di piantare il ricino, proprio il ricino e proprio lì, dove lo poteva vedere ogni momento di ogni giorno fino alla morte, perché fino alla morte non voleva dimenticare, il male dei fascisti.
Ma l’albero più dolce è L’albero degli amici di Jorge Louis Borges , che come tutti coloro a cui difetta un senso, sviluppano un gigantismo in altri. Lui, cieco, negli alberi vedeva altro:
Esistono persone nelle nostre vite che ci rendono felici
per il semplice caso di aver incrociato il nostro cammino.
Alcune percorrono la strada al nostro fianco,
vedendo con noi molte lune passare,
altre le scorgiamo appena tra un passo e l’altro.
Tutte le chiamiamo amici e ce sono di molti tipi.
Forse ciascuna foglia di un albero rappresenta uno
dei nostri amici…
… Molti di loro li chiamiamo amici dell’anima, del cuore.
Sono sinceri, sono veri. Sanno quando soffriamo, sanno cosa ci fa felici.
E alle volte uno di questi amici dell’anima si insinua nel nostro cuore e allora lo chiamiamo amore.
Ed è luce ai nostri occhi, musica alle nostre labbra,
salti ai nostri piedi.
Ma ci sono anche gli amici di passaggio, di una vacanza o un giorno o un’ora.
Essi recano il sorriso al nostro viso per tutto il tempo che stiamo con loro.
E non riusciamo a dimenticare gli amici distanti, quelli
che stanno nelle punte dei rami e che quando il vento
soffia appaiono tremanti.
Il tempo passa, l’estate se ne va, l’autunno si
avvicina e perdiamo molte delle nostre foglie, alcune rinascono
l’estate dopo, e altre permangono per molte stagioni.
Però ciò che ci rende felici è che le foglie cadute continuano a vivere con noi,
alimentando le nostre radici con allegria.
Sono i ricordi dei momenti meravigliosi di quando
incrociarono il nostro cammino.
Ti auguro, foglia del mio albero, pace
amore, fortuna e prosperità.
Oggi e sempre …
L’albero di Goethe – Helga Schneider – Salani Editore
La poesia di Borges è tratta dal racconto Il giardino dei sentieri che si biforcano in “Finzioni “– Adelphi
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Bellissimo articolo,,speriamo possano leggerlo in tanti … è un’ ottima guida per i carenti di empatia verde …