Ci estingueremo
Carnevale si chiama Paulinu, Titoru, Purgianelli…
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Carnevale si chiama Paulinu, Titoru, Purgianelli…
di Ornella Ricchiuto
«Il Carnevale [era] organizzato da Alfredo Russu che costruiva il pupazzo di Carnevale che veniva fatto bruciare…», questa briciola di memoria estrapolata da una mia intervista a Rita, cittadina di Tricase in provincia di Lecce, ci consente di approfondire alcuni aspetti relativi al rituale carnevalesco.
Innanzitutto cos’è il Carnevale e come si è evoluto fino ai nostri giorni?
Seconda la “Nuova enciclopedia popolare italiana ovvero Dizionario Generale di Scienze, Lettere, Arti, Storia, Geografia, ecc. ecc.” del 1843 il Carnevale è “Quel tempo di godimento e di particolare sollazzo, che cominciando dal giorno dopo l’Epifania, cioè ai sette di gennaio, dura fino alla mezzanotte del giorno che precede le Ceneri. (…) sembra probabile che il nostro carnevale debba la sua origine alle feste del paganesimo, principalmente alle baccanali, alle saturnali e alle strenne.”; ricercando il termine nel Vocabolario “Treccani” si rileva la locuzione carne–levare, “togliere la carne”, riferito al periodo di Quaresima in cui cessava l’uso della carne.
Le sue radici sono, dunque, da rintracciare in culti agricoli arcaici, classici e preclassici, di morte e resurrezione (oggi scomparsi) ed era il momento cerimoniale in cui l’«alto» veniva riportato al «basso» come alla sua origine e, insieme, alla sua morte.
Nel Medioevo, scrive Michail Bachtin, il Carnevale è organizzato sul principio del riso, non conosce distinzioni fra attori e spettatori perché il palcoscenico lo distruggerebbe; al rito non si assiste ma si vive e lo si vive tutti perché, per definizione, è fatto dall’insieme del popolo. Ciò si può mirabilmente osservare in un dipinto di Pieter Bruegel il Vecchio intitolato “La lotta tra il Carnevale e la Quaresima” (1559) in cui l’artista dipinge un mosaico di scene della vita quotidiana che vede in primo piano la lotta personificata tra Carnevale – uomo grasso e panciuto, seduto su una botte che porta con sé un maiale arrosto, seguito da maschere e strumenti musicali – e Quaresima, uomo travestito da donna vecchia e scarna trainata su un carretto con in mano due pesci e in testa un’arnia (simbolo religioso del dedicarsi al bene comune come fanno le api nell’alveare).
Il passaggio dal periodo grasso del Carnevale a quello di digiuno e astinenza quaresimale (oggi scomparso) l’ho riscontrato anche in un breve stornello popolare in dialetto salentino ascoltato da un anziano di Tricase: “Lu Carnuvale miu chinu de mbroje, ieri maccarruni e osci mancu foje” (Carnevale mio ricco di imbrogli, ieri maccheroni e oggi nemmeno verdura).
Nel corso della storia assistiamo al ripetersi di alcuni elementi del rituale, come le maschere, l’uso di oggetti, la funzione liberatoria-propiziatoria e i contenuti coreutico-musicali; in riferimento alle maschere, la signora Carmela (originaria di Patù e oggi residente a Castrignano del Capo) mi ha raccontato una peculiarità del profondo Capo di Leuca, ovvero la sfilata dei “Purgianelli”:
«Tutti giovani belli, se vestivane de biancu, coi pantaloni bianchi, cu lla camicia bianca e poi cu nn’affare cusì de purginella in testa. Poi intra a camicia, se mettevane cusì tutta piena de crusca, de canìe e de maranci rizzi. (…) e allora sti pulcinelli era… era per Carnevale, però era nnu sfogo ca li giovani, eh…. seguivano le fidanzate. Eccu, unu ca tendeva, dice “la fidanzata mia” va cu lla nchía tutta de caníe. E giravane… facivane cusì.».
I “Purgianelli” ricalcano il travestimento di Pulcinella, vestito bianco e maschera nera, ma possiedono alcuni connotati specifici: un copricapo a forma di cono addobbato con pennacchi e nastrini colorati. Dalle parole di Carmela si evince come la maschera era il pretesto per avvicinarsi alle ragazze negli anni ’50-‘60 quando i contatti tra i due sessi erano limitati; le ragazze venivano spaventate tant’è vero che c’è un detto in vernacolo: “ci vide lu Purgianella cu sse chiude e cu sse ’nserra” (“chi vede Pulcinella si deve chiudere e serrare”). Nonostante siano mutati i significati, i “Purgianelli” ancora oggi sono presenti così come in alcuni paesi salentini si riscontra tuttora la rappresentazione della morte di Carnevale, un fantoccio adagiato in una bara accompagnato dalla lamentazione funebre della madre Quaresima e delle prefiche (“chiangimorti”); basti pensare a “lu Paulinu” nella comunità di Castro e in alcuni comuni della Grecìa Salentina oppure lu “Titoru” a Gallipoli. Talvolta, questo pupazzo viene bruciato e questo simbolizzava la fine del “mondo alla rovescia” e dell’inversione dei ruoli per dar vita ad un rinnovato ordine sociale. Anche il titolo della nota pubblicazione “Carnevale si chiamava Vincenzo” dell’antropologa Annabella Rossi e dell’etnomusicologo Roberto De Simone deriva da un lamento funebre per Carnevale registrato nel comune di Maddaloni in Campania e recita:
“Carnevale se chiamava Vecienzo/teneva ‘e ccoglie d’oro e ‘o pesce ‘argiento/ih! gioia so! (…)”.
Questo frammento di lamentazione si inserisce in una ricerca antropologica sulle ritualità carnevalesche nella regione Campania a partire dal 1972 fino al 1977 in cui Annabella Rossi afferma che il Carnevale è un rituale del ciclo invernale, nel corso del quale hanno luogo scambi con il mondo sotterraneo come l’eliminazione del vecchio Carnevale che muore ma ritorna ogni anno.
Arrivando ai giorni nostri il Carnevale ha perso gran parte dei significati e dei valori di cui era permeato per divenire una festa soprattutto consumistica; come scrive Eugenio Imbriani, docente di Antropologia Culturale dell’Università del Salento: “Le dinamiche rituali dell’inversione, infatti, sono ormai ben celate, lo spavento degli astanti è programmato e si limita il più delle volte alla sorpresa, la violenza sostanzialmente non è più contemplata: i carnevali sono, generalmente, soggetti a una regia, sono preparati da pro-loco, comuni, associazioni, e in molti casi sono entrati nel meccanismo della patrimonializzazione, alcuni di essi hanno ottenuto il riconoscimento di patrimonio immateriale dell’umanità dall’Unesco. Nel tempo le cose cambiano”.
Nel vortice dei cambiamenti della società post-moderna è bene evidenziare l’approccio drammaturgico del sociologo Erving Goffman secondo cui il palcoscenico della vita quotidiana è una rappresentazione in cui i gruppi sociali assumono delle maschere interpretando dei ruoli a seconda dei contesti e dei soggetti, così potremmo concludere con la citazione dello scrittore spagnolo Mariano José Larra: “Il mondo è tutto in maschera; tutto l’anno è carnevale”.
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